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Piccola antologia casalinga #1 – Trasparenze a casa

Da venerdì 8 maggio, la redazione di «Trasparenze» pubblica ogni venerdì nuovi contributi gratuiti, che formano il corpus del numero speciale dedicato alla casa. In un momento in cui la permanenza a casa non è una scelta, ma l’unica possibilità, dobbiamo decidere come passare il tempo, a casa.

Noi di «Trasparenze», oltre alla pubblicazione a puntate del nuovo numero della rivista, completamente digitale, abbiamo deciso di offrire ai nostri lettori qualcosa di più: una piccola antologia casalinga, appunto. E adesso, lasciamo parlare gli autori.


Natalia Ginzburg, Piccole virtù

C’è stata la guerra e la gente ha visto crollare tante case […] magari abbiamo di nuovo una lampada sul tavolo e un vasetto di fiori e i ritratti dei nostri genitori ma non crediamo più a nessuna di queste cose perché una volta le abbiamo dovuto abbandonare all’improvviso, le abbiamo cercate tra le macerie […] chi ha visto le case crollare sa troppo chiaramente che labili beni siano i vasetti, i quadri le pareti bianche, sa troppo bene di cosa è fatta una casa. Una casa è fatta di mattoni, di calce e può crollare. Una casa non è molto solida, può crollare da un momento all’altro. Dietro i sereni vasetti di fiori, dietro i tappeti, i pavimenti lucidati a cera, c’è l’altro volto vero della casa, il volto atroce della casa crollata.

Anna Maria Ortese

Quando entro in una narrazione, non ne so nulla, e generalmente entro dalla porta sbagliata, e perciò faccio tante scale e corridoi e cortili, ed entro in tante stanze, inutili. Ma questa fatica, sentendosi, dal Lettore e da me, è poi la causa di quel po’ di gioia che si prova, credo, raggiungendo la stanza utile. È un modo di narrare non moderno, certo, non frenato e freddo: un modo semplicemente avventuroso, ma ancora, suppongo, può interessare come l’eterno Labirinto (…) spesso non so che cosa sto scrivendo. (…) Ci vuole tempo: come entrando in una stanza buia, fino a che non ci si abitui alla luce, poi da certi chiarori nel buio si intuisce qualcosa.

Giuseppe Gioacchino Belli, Tutti i sonetti romaneschi

La casa scummunicata1

No, nno, cce n’ho d’avanzo de le pene
de sta bbrutta casaccia mmaledetta,
che da sí2 cche ce sto, ccredeme,3 Bbetta,4
io nun ho avuto ppiú un’ora de bbene.

Cqua cciò5 abbortito: cqua cciò perzo6 Irene:
cqua cciò impeggnato inzino la cassetta:7
cqua mmi’ marito pe un fraudo8 a Rripetta9
me l’hanno messo a spasseggià in catene.

Cqua inzomma te so ddí, ccommare mia,
credessi d’annà ssotto ar Colonnato
de San Pietro, tant’è, vvojjo annà vvia.10

Ché ar meno llà nnun ce sarà un curato,
c’a ’ggni pelo che ffate d’alegria
ve viè a mmette11 in ner culo ch’è ppeccato.

5 marzo 1834

Note: 1 Disgraziata. 2 Da quando. 3 Credimi. 4 Elisabetta. 5 Ci ho. 6 Perduto. 7 Il cesso, con riverenza parlando. 8
Frodo. 9 Porto del Tevere. 10 Il genio della sintassi di questo terzetto va bene osservato. 11 Mettere.


Julio Cortázar, Casa occupata [Flaviarosa Nicoletti Rossini, trad.]

Ma è della casa che mi interessa parlare, della casa e di Irene, perché io non conto […] Irene stava lavorando a maglia in camera sua, erano le otto di sera e all’improvviso mi venne in mente di mettere sul fuoco il bricco del mate. Mi avviai per il corridoio fino a trovarmi davanti alla porta di rovere che era socchiusa, e stavo girando verso la cucina quando sentii qualcosa nella sala da pranzo o nella biblioteca. Il suono arrivava indistinto e sordo, come il rovesciarsi di una sedia sul tappeto o un soffocato sussurro di conversazione. Lo udii anche, nello stesso momento o un secondo più tardi, in fondo al corridoio che andava da quelle stanze alla porta. Mi gettai contro la porta prima che fosse troppo tardi, la chiusi di colpo appoggiandomici con il corpo; fortunatamente la chiave era infilata dalla nostra parte e inoltre feci scorrere il grande chiavistello per maggior sicurezza. Andai in cucina, scaldai il bricco, e quando fui di ritorno con il vassoio del mate dissi a Irene: «Ho dovuto chiudere la porta del corridoio. Hanno occupato la parte in fondo». Lasciò cadere il lavoro a maglia e mi guardò con i suoi gravi occhi stanchi. «Ne sei sicuro?». Annuii. «Allora,» disse raccogliendo i ferri «dovremo vivere da questo lato».

Julio Cortázar, Lettera a una signorina di Parigi

Andrée, io non volevo venire ad abitare nel suo appartamento di via Suipacha. Non tanto per i coniglietti, piuttosto perché mi addolora entrare in un ordine chiuso, costruito ormai fin nelle più sottili maglie dell’aria, quelle che in casa sua preservano la musica della lavanda, il volo di un piumino per la cipria, il gioco del violino con la viola nel quartetto di Rarà. Mi amareggia entrare in un ambito dove qualcuno che vive in modo preciso e raffinato ha disposto tutto come in una reiterazione visibile della propria anima, qui i libri (da una parte in spagnolo, dall’altra in inglese e in francese), lì i cuscini verdi, in questo preciso punto del tavolino il portacenere di cristallo che sembra il frammento di una bolla di sapone, e sempre un profumo, un suono, un crescere di piante, una fotografia dell’amico morto, rituale di vassoi del tè e mollette per lo zucchero…

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