Ecco il secondo capitolo di questa “Piccola antologia casalinga”. Buona lettura! E non perdetevi i nuovi contributi di
Trasparenze, digitali e gratuiti.

“Il giorno dopo, mia madre mise al sole le cose di mio padre e le lasciò in cortile fin verso sera. Quello che rimaneva del suo guardaroba erano una redingote tutta macchiata e sfilacciata, un abito nero che a mio padre non piaceva e che aveva messo sì e no un paio di volte in tutto, e alcuni colletti duri ormai ingialliti. A sera, riempì le tasche della sua redingote con fiori di lavanda e ripose tutto nell’armadio. Quel repentino cambiamento di odori nella nostra stanza produsse su tutti noi un effetto assai penoso. Abituati ormai all’onnipresente, immortale odore delle sue Symphonia, sentimmo di colpo, al profumo inebriante e balsamico della lavanda, che nella partenza di mio padre c’era questa volta qualcosa di definitivo e di fatale. La scomparsa subitanea del suo odore tolse alla nostra casa virilità e severità e mutò completamente l’aspetto generale del suo interno: le cose si fecero vischiose, gli angoli si arrotondarono, gli spigoli dei mobili si intrecciarono in modo capriccioso, fino a sbocciare in una specie di barocco decadente…”
“La difficoltà della riflessione sull’abitare deriva dal fatto che da una parte vi deve essere riconosciuto ciò che è antichissimo – forse eterno -, l’immagine del soggiorno dell’uomo nel grembo materno; e che d’altra parte, malgrado questo motivo storico-originario, nell’abitare deve essere compresa, nella sua forma più estrema, una condizione di esistenza del xix secolo. La forma originaria di ogni abitare è il vivere non in una casa, ma in un guscio. Questo reca l’impronta di chi vi abita. Nel caso più estremo l’abitazione diventa guscio. Il xix secolo è stato, come nessun’altra epoca, morbosamente legato alla casa. Ha concepito la casa come custodia dell’uomo e l’ha collocato li dentro con tutto ciò che gli appartiene, cosi profondamente da far pensare all’interno di un astuccio per compassi in cui lo strumento è incastonato di solito in profonde scanalature di velluto viola con tutti i suoi accessori. Per cosa non ha inventato gusci il xix secolo: orologi da tasca, pantofole, portauovo, termometri, carte da gioco. E, in mancanza di gusci, fodere, passatoie, rivestimenti e coperture. Il xx secolo, con la sua porosità, la sua trasparenza e la sua inclinazione alla luce e all’aria aperta la fa finita con l’abitare nel vecchio senso della parola. Alla stanzetta della bambola nell’appartamento del costruttore Solneß si contrappongono le «dimore per gli esseri umani». L’art nouveau ha scosso in modo radicale il concetto di guscio. Oggi questo concetto è morto del tutto e l’abitare si restringe: per i vivi con le camere d’albergo, per i morti con i crematori.”
La vita si riprende sempre tutto e digerisce anche i morti, ma per Foà non c’era nulla da festeggiare. Aveva faticosamente ripreso il suo corso: ufficio, lavoro, pochissimi incontri, lavoro, ufficio, ufficio, casa. Ecco, la casa: finché era in ufficio, il daffare riusciva ad anestetizzare tutto. D’altra parte lui era un uomo schivo, di poche parole, lavoratore serissimo e assiduo. Nessuno, dal barista alla segretaria, poteva riuscire a indovinare cosa bruciasse dentro al suo petto mentr salutava il commendatori Gribaudo o mentre leggeva i bollettini di borsa. Ma poi tornava a casa, e lì, all’angolo di via Baretti, la notte che era scesa il 6 ottobre lo attendeva. Era sempre là, annidata nella strada, nelle scale, nel corridoio, pronta a riaffiorare per ogni nonnulla: passare davanti alla cameretta di Mauro, lavarsi le mani con l’odore del bimbo appena lavato, quel seggiolone lasciato lì nell’angolo di cucina che nessuno aveva avuto il coraggio di togliere. Non c’era scampo, la notte si annidava ovunque. A cena – puntuali come sempre alle 19.00 – Roberto e Diodata parlavano di tutto: lui dei problemi e delle soddisfazioni del lavoro, lei delle amiche, della cucina, poi si toccava l’attualità, la politica. Dolorsa politica. E su questo tasto lui si infiammava sempre. Era molto diverso il Foà pubblico, schivo e riservato, da quello domestico.
Virginia Woolf, Gita al faro (trad. di Anna Luisa Zazo)
Poiché era giunto ora il momento, la pausa quando l’alba trema e la notte si ferma, quando una piuma, se si posa sulla bilancia, la farà scendere con il suo peso. Una sola piuma, e la casa, affondando, cadendo, si sarebbe capovolta e sarebbe precipitata negli abissi di tenebra. Nelle stanze in rovina i gitanti avrebbero fatto bollire le teiere; gli amanti avrebbero cercato rifugio giacendo sulle nude assi; e il pastore avrebbe custodito il suo pranzo tra i mattoni; e il vagabondo avrebbe dormito avvolto nel cappotto per tenere lontano il freddo. Allora il tetto sarebbe crollato; rovi e cicute avrebbero cancellato sentieri, gradini, finestre; sarebbero cresciuti in modo ineguale ma lussureggiante sul cumulo, e infine qualcuno, varcando i confini della proprietà per aver perduto la strada, avrebbe potuto dire soltanto per una rossa pianta di tritoma tra le ortiche, o un frammento di porcellana nella cicuta, che là un tempo qualcuno aveva vissuto; che c’era stata una casa.
Sándor Márai, Sindbad torna a casa (cura di Marinella D’Alessandro)
Quella donna aveva portato nella vita di Sindbad, che stava diventando vecchio, tutto ciò che per cinquantacinque anni il marinaio aveva cercato invano negli ambienti dei caffè, delle stanze riservate ai giocatori di carte, delle bettole impregnate dell’odore di salnitro, dei circoli saturi degli acidi vapori dei problemi umani, delle palazzine condominiali sgretolate lungo i viali, arredate con divani di feltro ammuffiti e pieni di tarme. Aveva portato il profumo del focolare domestico, che Sindbad aveva smarrito già da ragazzino, e che poi aveva cercato di fiutare e stanare dappertutto in giro per il mondo, con l’olfatto di un cane da caccia. Aveva portato l’odore di mele e di naftalina delle camere di campagna, che in un caldo pomeriggio estivo sfiora il volto del viandante, sulla via del ritorno verso casa, come un dolce buffetto materno […] Aveva portato un silenzio punteggiato da piccoli rumori, bisticci, allegri acciottolii in cucina, dal canticchiare che si ode verso l’ora del tramonto nel cortile della casa di Óbuda, quando prima di Pasqua la padrona di casa e la domestica fanno a gara a chi stira meglio, e la brace di carbone e l’acerbo e festoso profumo della biancheria lavata e stirata di fresco si confondono con l’odore della cena preparata in quattro e quattr’otto, della cipolla che sfrigola nello strutto, del fegato di vitello e delle patate novelle insaporite con il prezzemolo… […] Aveva portato il fatto che Sindbad – il quale per tutta la vita, ovunque, in nave e in treno, su vetture a due cavalli con le ruote di gomma e di recente su moderni autoveicoli, aveva inseguito la tranquillità e il riposo, che si tenevano a distanza dalla sua anima come la luce del sole dalle gole infossate delle caverne – ora, al fianco di questa donna, per la prima volta non sentiva l’impellente bisogno di mettersi in viaggio.
Tutto è calmo nella mia casa. Fuori la strada è senza rumore;
eccomi vicino alla lampada che ha il paralume abbassato.
La stanza è immersa in una dolce ombra.
Giungono i miei fanciulli e le loro teste graziosamente inclinate
sono avviluppate dal fumo del mio sigaro.
Giungono in folla, creature di sogno,
fanciulli allegri e graziose fanciulle.
La loro fronte brilla come dopo il bagno,
e gaiamente, follemente,
attraversiamo i regni della gioia.
Ma nel momento nel quale il nostro piacere è più vivo,
il mio sguardo cade accidentalmente sullo specchio.
Ed ecco che io vi scorgo un ospite triste e severo,
un uomo dagli occhi plumbei, dal panciotto tutto chiuso,
che porta le pantofole di feltro, se non erro!
Mi sembra che un greve silenzio si sia steso sulla gaia folla.
Uno dei fanciulli mette il dito sulla bocca,
un altro rimane stupidamente sorpreso.
Non sapete dunque che in presenza degli estranei
anche il più sfrontato monello perde la sua sicurezza?