Eccoci al terzo appuntamento con la nostra Piccola antologia casalinga. Vi ricordiamo che ogni venerdì pubblicheremo nuovi contributi per l’edizione speciale di Trasparenze. Ogni contributo di questo numero è gratuito!
Don de Lillo, Libra
Lei tornò a casa e gli disse che dovevano traslocare un’altra volta. Aveva trovato tre stanze nella Centesima e rotti, vicino alo zoo del Bronx, una bella sistemazione per un ragazzino appassionato di animali.
– Serutan è Natures scritto al contrario, – disse la televisione.
Era un appartamento con le stanze che davano l’una nell’altra, in una casa popolare a quattro piani, su una via dall’aspetto sinistro. Un minorato, più o meno coetaneo di Lee, girava a passo zoppo e saltellante, con un granchio vivo rubato al mercato italiano che strofinava sulla faccia ai bambini più piccoli. Questo era uno spettacolo abituale. Anche le sassaiole erano abituali. E lo stavano diventando i ragazzi armati di pistole rudimentali fabbricate nel laboratorio della scuola. Una sera dalla finestra vide due ragazzi ficcare il gatto del droghiere dentro un sacco da imballaggio e sbatterlo contro un lampione. Quindi cercava di regolare i propri movimenti con il ritmo della strada. Non andarci da mezzogiorno all’una e dalle tre alle cinque. Imparare a conoscere i vicoli, a sfruttare il buio. Viaggiava in metropolitana. Passava buona parte del tempo allo zoo.
C’erano uomini più anziani che non si sedevano sui gradini davanti a casa prima di avere steso accuratamente il fazzoletto sulla pietra grigia.
Ibn Khafâja, da Liriche arabe di Spagna (Salerno Editrice, 1993)
XXXVI
Vedo la sua casa in ogni ora e momento,
ma colei che vi abita mi è celata.
A che mi giova la vicinanza delle case, quando
un guardiano vieta ogni contatto con me?
Un vicino di cui posso udire la voce,
sapendo che assai più prossima è la Cina…
Come assetato che vede coi suoi occhi l’acqua
di un pozzo, e non ha modo di giungervi,
così ti è celato chi è nella tomba,
pur non essendovi di mezzo che una lapide.
Francesca Bergadano
Casa. Casa può essere un albero, perché è lì che ti senti “al tuo posto”. Casa può essere un profumo che ti avvolge appena varchi una soglia. Casa può essere una persona perché è lei che ti protegge quando piove. Quante cose può essere una casa. Ma quando la casa diventa uno spazio delimitato in cui sei costretto a vivere anche con quell’albero, quel profumo e quella persona allora casa non è più scudo, protezione, sicurezza.
Quando sei obbligato a vivere “dentro” allora ecco che casa diventa il “fuori” e sei costretto a (ri) trovare una definizione di casa.
Forse non ho una casa o ne ho più di una. La casa dove mia mamma mi aspetta per il caffè, quella dove la muffa sul muro ha guardato invidiosa la mia felicità; la casa dove mia figlia ha camminato, quella dove ho visto Margherita per l’ultima volta. La cucina di Vanda, la stanza di Elisa, il garage della mia adolescenza, la Panda 4×4 rossa di papà, la stanza d’hotel dove ho steso calzini spaiati. La mia casa ha a che fare con la spensieratezza e la felicità. E ora che spensieratezza e felicità non sono comprese in 80 metri quadrati e il balcone non offre orizzonti lontani e il dolore pulsa come un secondo cuore… Vorrei tanto tornare a casa.
John Fowles, Daniel Martin
Naturalmente ci era venuta come ospite, vi aveva trascorso persino qualche vacanza, vi aveva portato amici e anche il suo pony in un furgone da Compton; ma a quell’epoca la pubertà e l’elegante collegio che frequentava avevano fatalmente corrotto l’innocenza dell’undicenne. In qualche strano modo, sembrava persino che la casa ci avesse allontanati. Capivo che per lei era, nella migliore delle ipotesi, una casetta divertente, nella peggiore un luogo piuttosto noioso e – nel vocabolario del patrigno – “plebeo”; e poi era troppo evidente che non la prendevo sul serio neanch’io. Carol non vi si era mai sentita a proprio agio e, dopo quel primo momento di passione, dovuta in realtà al suo essersi scoperta mia figlia, non l’aveva mai amata. L’avevamo usata un po’ più spesso durante l’ultimo anno, ma sentivo che ci veniva solo perché costretta. Non era casa sua. E durante la mia assenza non c’era mai andata da sola.
Elias Canetti, Auto da fé
La sua biblioteca si trovava nella Ehrlichstrasse, al quarto e ultimo piano della casa contrassegnata con il numero 24. La porta dell’appartamento era dotata, per sicurezza, di tre complicate serrature. L’aprì, attraversò l’anticamera nella quale c’era soltanto un attaccapanni, ed entrò nel suo studio. Posò con ogni cautela la borsa su una poltrona, poi percorse un paio di volte in su e in giù la fuga dei quattro locali alti e spaziosi che formavano la sua biblioteca.
Tutte le pareti erano tappezzate di libri fino al soffitto. Vi fece scorrere sopra lo sguardo lentamente. Nel soffitto si aprivano dei lucernari. Era orgoglioso di quella sua luce che pioveva dall’alto. Le finestre erano state murate parecchi anni prima, dopo una dura battaglia con il padrone di casa. In tal modo egli aveva guadagnato in ogni stanza una quarta parete, il che significava più posto per i libri. Inoltre, una luce che illuminasse dall’alto, uniformemente, tutti gli scaffali, gli sembrava più equa e più consona ai suoi rapporti con i libri. E con le finestre era scomparsa pure la tentazione di osservare il viavai della strada: una cattiva abitudine, evidentemente innata, che serve solo a far perdere tempo. Ogni giorno, prima di mettersi allo scrittoio, benediceva quell’idea e la costanza con cui l’aveva perseguita, perché ad essa doveva la realizzazione del suo maggior desiderio: possedere una biblioteca ricca, ben ordinata e chiusa da tutti i lati, nella quale nessun mobile superfluo, nessuna persona superflua lo distogliesse dai suoi gravi pensieri.
Il primo ambiente serviva da studio. Un vecchio, imponente scrittoio, una poltrona dietro ad esso, una seconda poltrona nell’angolo opposto costituivano tutto il mobilio. S’aggiungeva un divano che faceva del suo meglio per non farsi notare e che Kien preferiva ignorare dal momento che gli serviva soltanto per dormirci. Alla parete era appesa una scala scorrevole. Essa era più importante del divano e nel corso della giornata passava da un locale all’altro. Il vuoto delle altre tre stanze non era infatti turbato neppure da una sedia. In nessun punto un tavolo, un armadio, una stufa che rompesse la variopinta uniformità degli scaffali. I tappeti folti che coprivano per intero il pavimento rendevano più calda la severa penombra che, grazie alle porte spalancate, faceva di tutti e quattro i locali un unico, ampio salone.
Roberto Calasso, La folie Baudelaire
Il bordello-museo si presentava come un vasto, sconfinato edificio mnemotecnico. Sembrava che dentro quella casa si aprisse una rete di passages, collegati fra loro, di cui non si vedeva lo sbocco. Era il paesaggio del nuovo secondo Benjamin, quella nervatura pulsante di luci e di merci in cui si condensava la fantasmagoria di Parigi, mentre Parigi stessa, a sua volta, era una miniatura dell’intero pianeta quale si sarebbe dispiegato da allora sino a oggi e altro. Ma qui il primo carattere di quelle gallerie è di cosa usata, consunta e sfibrata dall’uso. Quell’aria vecchia è la traccia del passato. Il tempo non si lascia percepire soltanto attraverso ruderi o monumenti, ma per la sua azione corrosiva che investe tutto, anche il nuovo. La natura è tacitamente abolita – e il panorama si compone soltanto di tarde istituzioni della civiltà: caffè, gabinetti di lettura, bische.
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