Descrizione
“Ad apertura di libro, ad occhio nudo, appare evidente come ai pochi, tutto sommato, documenti epistolari pubblicati, senza purtroppo il conforto delle responsive, corrispondano annotazioni abbondanti e particolareggiate. Non è un gioco accademico. Penso abbia fatto bene Francesca Colombi ad esercitare con scrupolo l’arte del commento, forse sfidando un po’ il lettore, ma certamente a fin di bene. In prima battuta perché ormai, dopo molti epistolari sbarbariani pubblicati dello stesso periodo, capiamo come il poeta occupasse parte delle sue giornate smaltendo la posta e intrecciando i temi e gli interlocutori: alla sua scrivania si imprimono su carte differenti uguali temi, uguali necessità e dunque era necessario restituire una traccia di quella fitta ragnatela di amicali parole. Inoltre questa, tra le raccolte di lettere di Sbarbaro, è senz’altro quella che ci costringe a formulare domande in apparenza semplici ma dalle meno semplici risposte. Perché un poeta esordiente ed ancora confinato in una couche intellettuale periferica, come Giovanni Giudici, decide di scrivere nel 1955 ad un poeta che ha inciso le sorti di un tempo per lui remoto, cioè il primo Novecento? Un tempo che Giudici, nato nel 1924, dieci anni dopo l’uscita di Pianissimo, non ha vissuto con coscienza letteraria. Perché ritiene che Sbarbaro possa dargli consigli e indicargli percorsi?
Sono domande che possono farci riflettere sulle linee della poesia del secondo dopoguerra italiano, ma che soprattutto ci invitano, come lettori, ad essere subito consapevoli di un percettibile disallineamento implicito nelle lettere, di una sensazione di disarmonia o, per usare una parola di Giudici, sfasamento che le accompagna.”